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8 Marzo: 5 donne "speciali" che hanno fatto la storia di Bologna

L'elenco sarebbe molto più lungo perchè, sì, di grandi e coraggiose donne bolognesi ce ne sono tante. Qui ne abbiamo scelte 5, ma ognuno di noi probabilmente ne ha accanto almeno un'altra

Donne speciali, che hanno fatto cose speciali e che per questo resteranno sempre nella storia, non solo della nostra città. Coraggio, determinazione, costanza, audacia: tante le virtù che, ognuna a modo suo e ognuna nel suo tempo, hanno messo a disposizione degli altri. Oggi, che è l'8 marzo, approfittiamo della Festa della Donna per ricordarci di loro. 

Ecco 10 donne che hanno fatto la storia di Bologna: 

1. Mariele Ventre: la regina de "Lo Zecchino d'Oro"

Mariele Ventre nasce a Bologna il 16 luglio 1939 da papà Livio e mamma Maria, entrambi lucani. Già la sua primissima formazione è caratterizzata dall'incontro con il Convento di S. Antonio di Bologna (la piccola Mariele è araldina, la giovane Mariele è catechista) e con la musica, di cui suo padre è appassionato cultore. Nel 1957 consegue il diploma di abilitazione magistrale e nel 1961 il diploma di pianoforte al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano. A questo stesso anno risale anche l'incontro di Mariele con lo Zecchino d'Oro che - giunto alla terza edizione - veniva trasferito da Milano a Bologna, proprio presso l'Antoniano.  Nel 1963 Mariele fonda il Piccolo Coro dell'Antoniano. Tutta la sua vita - costellata da numerosi riconoscimenti in Italia e  all'estero - sarà dedicata alla musica ed ai più piccoli.  Splendida figura di artista e di educatrice cristiana, come l'ha definita il Cardinale Arcivescovo di Bologna Giacomo Biffi, Mariele Ventre muore  dopo lunga malattia a Bologna il 16 dicembre 1995, venti giorni dopo aver diretto la trentottesima edizione dello Zecchino d'Oro. Mariele Ventre per decenni ha incarnato quegli ideali etici e pedagogici che l'Antoniano ha posto a fondamento delle sue attività musicali,  ricreative e sociali per i più piccoli.

La stessa storia della vita di Mariele è indissolubilmente legata a quella dell'Antoniano, del Piccolo Coro – di cui è stata fondatrice nel 1963 - e dello Zecchino d'Oro. Alle doti indiscusse di grande musicista e di educatrice, la cui fama ha varcato ben presto i confini nazionali, Mariele univa certe caratteristiche del suo temperamento - lo sguardo magnetico, il piglio dolce e autorevole, il rigore, la tenacia, il valore del sacrificio e la capacità di saper apprezzare le piccole cose della vita, uniti ad una fede radicata e vissuta – che l'hanno resa straordinariamente popolare e vicina al cuore della gente. (fonte Antoniano) 

2. Elisabetta Sirani, la grande pittrice donna 

Elisabetta fu la prima dei quattro figli di Margherita e Giovanni Andrea Sirani, affermato pittore bolognese, primo assistente di Guido Reni e mercante d'arte. Mentre Antonio, il più piccolo e unico figlio maschio, si sarebbe dedicato alla medicina, Elisabetta studiò con le sorelle Barbara e Anna Maria alla scuola paterna dove dimostrò subito talento e maestria realizzando alcuni ritratti già all'età di diciassette anni. Iniziò la sua attività producendo dipinti di piccole dimensioni commissionati per la devozione privata, i cosiddetti "quadretti da letto". Uno di questi suoi primi lavori è il Sant'Antonio da Padova e Gesù bambino in collezione privata, in cui però la mano del padre interviene a dipingere il Cristo infante e il manto del santo. Elisabetta divenne quindi nota per le sue rappresentazioni ispirate a temi sacri (in particolare come pittrice di Madonne) o di natura allegorica, nonché per i ritratti di eroine bibliche o letterarie (da Giuditta a Dalila, da Porzia a Cleopatra), di quest'ultima è recente il ritrovamento in collezione modenese di una versione con il seno scoperto sino ad oggi sconosciuta e pubblicata dal ricercatore Alex Cavallucci. Il dipinto conservato a Cesena nella Fondazione Cassa di Risparmio già dato all'opera di Elisabetta, è da attribuire con certezza al padre Giovanni Andrea Sirani.

La sua tecnica era decisamente inconsueta per il tempo: tratteggiava infatti i soggetti con schizzi veloci e quindi li perfezionava con l'acquarello dimostrando gran disinvoltura o, per usare un termine dell'epoca, con "sprezzatura".[2] In un ambiente come quello artistico, ritenuto una prerogativa maschile e che di conseguenza mal tollerava "l'intrusione" di protagoniste femminili, Elisabetta eseguì in pubblico e alla presenza dei suoi committenti (tra cui figuravano nobili e artistocratici, ecclesiastici e personalità di spicco come alcuni membri della famiglia Medici, la duchessa di Parma e quella di Baviera) una parte delle proprie opere non solo adeguandosi a una diffusa abitudine dell'epoca, ma anche per allontanare qualsiasi sospetto che non fosse una donna a dipingere con tanta bravura e «per sfatare le voci che vedevano il padre furbo "sfruttatore" di una inesistente capacità o abilità della figlia».[3]

«Tant'era la prontezza nello immaginare la composizione de' quadri, tanta la sicurezza nell'eseguirla che l'aspetto delle illustri persone che andavano a vederla dipingere, anziché intimidirla l'incoraggiava. Alla presenza di Cosimo III lavorava nel quadro ordinatole dal Principe Leopoldo suo zio. In quella tela per alludere alle tre particolari virtù della casa Medici aveva rappresentata la Giustizia assistita dalla Carità e dalla Prudenza; e mentre Cosimo stava a vederla ella presto abbozzovvi tutto il Bambino allattato dalla Carità.»
(Mazzoni Toselli, op. cit., p. 6, che riprende a sua volta il Malvasia, op. cit., p. 474)
Accanto alle tele, fin da giovane la Sirani realizzò anche apprezzate incisioni all'acquaforte ricavate in genere dai suoi quadri. Le sono attribuite all'incirca 200 opere: una quantità ritenuta esagerata nei soli dieci anni in cui lavorò, anche se in verità non se ne conosce il numero reale a parte una lista che lei stessa iniziò a stendere in una fase già piuttosto avanzata della sua pur breve attività.

La "scuola bolognese" e la "scuola delle donne"
L'artista fa parte di quello straordinario movimento pittorico barocco comunemente noto come scuola bolognese. Bologna, in particolare, fu una più prolifica officina italiana di artiste donne, che poterono esprimersi così efficacemente anche grazie alla protezione loro accordata dai rispettivi padri, come fu appunto per Elisabetta ma anche per Lavinia Fontana, figlia di Prospero, o per la romana Artemisia Gentileschi, figlia di Orazio, e la veneziana Marietta Robusti, figlia del Tintoretto e perciò chiamata "la Tintoretta".
Porzia che si ferisce alla coscia, 1664,Collezioni d'Arte e di Storia della Fondazione Carisbo, Bologna.
Va comunque ricordato che in realtà nella casa e studio dei Sirani (di Giovanni Andrea prima e poi di Elisabetta, che gli subentrò intorno al 1662, quando la podagra e la chiragra gli impedirono di proseguire l'attività) operava una buona bottega di sole donne, tant'è che nelle opere della giovane pittrice è visibile una certa discontinuità, dovuta in alcuni dipinti proprio alla collaborazione delle allieve, mentre in quelli sicuramente autografi è chiara l'eredità ricevuta dall'insegnamento del padre e, attraverso lui, di Guido Reni e, ancor prima, di Raffaello. Nel dipinto raffigurante San Giuseppe nell'atto di donare un fiore a Gesù bambino del 1662 c'è un chiaro riferimento al San Giuseppe di Guido Reni di medesimo soggetto e composizione. Successivamente, con l'attenuarsi delle influenze dei suoi maestri, Elisabetta andò sviluppando progressivamente uno stile proprio e indipendente, più naturalistico e realistico, più vicino alla sensibilità del Guercino e della scuola veneta, in cui pare stabilirsi una sorta di dialogo emotivo fra l'artista e il soggetto delle sue opere.

Tra le sue discepole figurava anche Ginevra Cantofoli, divenuta poi famosa non solo per le opere realizzate ma anche per essere stata sospettata di veneficio ai danni della maestra per un'esasperata gelosia d'amore. In verità anche il padre, forse per invidia nei confronti della figlia, fu visto come responsabile della morte di Elisabetta. Nessuno dei tre indagati, compresa la domestica Lucia Tolomelli, fu però accusato formalmente e la pittrice fu dichiarata morta a causa di un'ulcera perforante (peritonite). Mito e supposizioni arbitrarie che però negli anni non si sono mai spenti, anche per la sua prematura scomparsa a soli ventisette anni d'età. Il conte e biografo Carlo Cesare Malvasia, che all'epoca stava scrivendo le vite dei pittori bolognesi poi riunite in Felsina pittrice, quando seppe della morte della sua favorita compose un sentito e accorato necrologio come se gli fosse venuta a mancare una figlia, più che un'analisi critica sulla vita e le opere dell'artista come per tutti gli altri pittori presenti nella sua raccolta.

Il 29 agosto 1665 fu sepolta, accanto a Guido Reni, nel sepolcro della famiglia Guidotti nella cappella del Rosario della Basilica di San Domenico in Bologna e, alcuni giorni dopo, vennero celebrate le esequie con gran pompa. Poeti e letterati le dedicarono varie composizioni in versi, che Giovanni Luigi Picinardi diede alle stampe insieme alla sua orazione funebre sotto il titolo Il pennello lacrimato,[7] mentre il trentatreenne Bartolomeo Zanicchelli, assiduo frequentatore della scuola dei Sirani da quindici anni, ne fece il ritratto da morta.
Dopo un primo, modesto ridestarsi d'interesse nell'Ottocento romantico, che ne privilegiò gli aspetti biografici più "eroici" e patetici, la Sirani ha conosciuto un recente successo di critica dovuto a nuovi studi d'approfondimento sulla sua opera, arricchitasi notevolmente negli ultimi anni, tanto da spingere gli studiosi a diverse pubblicazioni monografiche a poca distanza l'una dall'altra.

Un primo segnale di rivalutazione si può individuare nel 1947 quando, con la sostituzione dell'ordinamento repubblicano a quello monarchico, a Bologna l'antica "Scuola provinciale femminile di arti e mestieri", già denominata "Istituto femminile di arti e mestieri Regina Margherita" sotto il patronato reale, fu definitivamente intitolata a Elisabetta Sirani.[8] Nel 1994 le è stato dedicato un cratere di 28 km di diametro sul pianeta Venere[9] e, in quello stesso anno, è stato emesso un francobollo raffigurante il suo dipinto Madonna con Bambino di Washington all'interno della tradizionale serie natalizia dello United States Postal Service (la prima volta per l'opera d'arte di una donna).

La prima mostra monografica è datata 1995, mentre la prima monografia moderna è quella curata da Adelina Modesti nel 2004 (op. cit.). Più di recente (luglio 2011), la compagnia teatrale bolognese Il Chiostro ha ripreso, fra storia, mito e leggende popolari, il tema del processo a Lucia Tolomelli per l'avvelenamento di Elisabetta Sirani in L'enigma della tela (un giallo nell'arte), uno spettacolo che combina i toni tragici del giallo con quelli comici della commedia, scritto da Giovanni Gotti ed Eugenio Bortolini che ne è stato anche regista e interprete. (Wikipedia) 

3. Bettisia Gozzadini: lei che si vestiva da uomo 

Appartenente alla nobile famiglia dei Gozzadini, figlia di Amadore Gozzadini e Adelasia Pegolotti, si distinse per la grande attitudine intellettuale fin da bambina[ attirando l'attenzione di Giacomo Baldavino e Tancredi Arcidiacono dell'Università di Bologna, i quali fecero pressioni perché fosse fatta studiare. Si laureò in giurisprudenza il 3 giugno 1236 con il massimo dei voti. Inizialmente insegnò in casa, poi nelle scuole locali. La sua grande capacità oratoria le ottenne l'offerta di una cattedra all'università, che dapprincipio rifiutò ma poi finì per accettare, mantenendosi in attività fino alla morte. Le cronache sostengono che durante tutta l’adolescenza indossò abiti maschili. Si dice che le sue lezioni fossero talmente frequentate che doveva tenere le lezioni in un piazza all'aperto. Nel 1242 tenne l'orazione funebre per il vescovo di Bologna Enrico della Fratta.Morì nel novembre 1261, per il crollo della sua casa, sulle rive del fiume Idice. I dettagli della sua vita sono riportati da Pompeo Delfi. (Wikipedia e altre fonti)

4. Giulietta Masina: la bella Gelsomina

Giulia Anna "Giulietta" Masina nasce a San Giorgio di Piano il 22 febbraio 1921.  Figlia del violinista e professore di musica Gaetano Masina e della maestra Angela Flavia Pasqualini, visse dall'età di quattro anni in poi a Roma presso una zia di origine milanese rimasta vedova. Frequentò il ginnasio e il liceo dalle Suore Orsoline, dove, incoraggiata dalla zia, cominciò a coltivare la passione per la recitazione. Sin dalla stagione 1941-1942 partecipò a numerosi spettacoli di prosa, danza e musica nell'ambito del Teatro Universitario nei locali dello Stadium Urbis, che poi diventerà il Teatro Ateneo. In quella seguente (la 1942-1943) entrò nella Compagnia del Teatro Comico Musicale dove si esibì come ballerina, cantante e attrice in diverse operette e commedie brillanti.

Nel 1942 Giulietta incontra negli studi dell'EIAR Federico Fellini. Già nel luglio 1943 la coppia si presenta ai genitori di lei. Dopo l'8 settembre 1943 la loro unione conosce un'accelerazione: Fellini, invece di rispondere alla chiamata alla leva, convola a nozze con Giulietta il 30 ottobre. Nei primi mesi vivono insieme nella casa della zia milanese della moglie. Intanto il sodalizio artistico era già avviato: dal 1942 la giovane studentessa di Lettere nonché attrice interpreta il personaggio di Pallina, prima fidanzata e poi moglie bambina di Cico. Le disavventure della giovane coppia vengono trasmesse all'interno della rivista radiofonica Terziglio per riprendere nel dopoguerra in una serie autonoma intitolata Le avventure di Cico e Pallina, interrotta dopo quattordici puntate nel febbraio del 1947.

La Masina e Fellini ebbero un figlio, Pier Federico, nato il 22 marzo 1945 e morto appena undici giorni dopo la nascita, il 2 aprile. Giulietta Masina muore il 23 marzo 1994, all'età di settantatré anni, per un tumore ai polmoni (cinque mesi dopo la scomparsa di Fellini avvenuta il 31 ottobre 1993). Entrambi sono sepolti nel cimitero di Rimini. La loro tomba è marcata dal monumento Le Vele, opera dello scultore Arnaldo Pomodoro. Prima di morire, chiese che fosse il trombettista Mauro Maur, «la sua tromba», a suonare il tema de La strada di Nino Rota ai suoi funerali. (Wikipedia) 

5. Irma Bandiera: nome di battaglia "Mimma"

Irma Bandiera nasce a Bologna l'8 aprile 1915 da una famiglia benestante  composta, dal padre Angelo capomastro edile che durante la dittatura aveva manifestato sentimenti antifascisti, dalla madre Argentina Manferrati, da lei e dalla sorella Nastia. Irma era bella e sempre molto elegante. 
Nella vita di Irma c'era un fidanzato, Federico, militare a Creta, fatto prigioniero dopo l'8 settembre 1943. La nave su cui era imbarcato per il trasferimento in Germania fu bombardata e affondò al Pireo. Federico fu dato per disperso e Mimma e la sua famiglia fecero ricerche senza frutto, anche attraverso il Vaticano.
Nel caos dell'Armistizio, col dissolvimento  delle Forze Armate  e l'abbandono vile della monarchia, lei  cominciò ad aiutare i soldati sbandati e si interessò sempre più di politica aderendo al Partito comunista. Molto presto entrò nel movimento di Resistenza, assumendo il nome di battaglia “Mimma”, assieme allo studente universitario nella facoltà di Medicina Dino Cipollani  giovane partigiano di Argelato (nome di battaglia “Marco”),  che conobbe a Funo  dove lei andava spesso a trovare i suoi parenti.
Nell'agosto del 1944 il Movimento di Liberazione in questa zona della bassa bolognese era particolarmente attivo. Il 5 agosto i partigiani uccisero un ufficiale tedesco e un comandante delle brigate nere. Alla mezzanotte del 6 agosto a Funo cominciò una tremenda rappresaglia durante la quale vennero arrestati tre partigiani, portati alle scuole di San Giorgio di Piano. La sera del 7 agosto anche Irma fu arrestata a casa dello zio, insieme ad altri due, e rinchiusa anch'essa nelle scuole di San Giorgio, ma isolata dai compagni. Venne poi tradotta a Bologna. Probabilmente i fascisti sapevano parecchie cose su di lei e credevano di ottenere informazioni. 
I familiari la cercarono alle Caserme Rosse di via Corticella , il centro di smistamento per i deportati, e sperarono anche fosse fra i detenuti liberati dall'azione temeraria dei gappisti nel carcere cittadino di San Giovanni in Monte, il 9 agosto. La madre continuò a cercarla, insieme alla sorella, in Questura e al comando tedesco di via Santa Chiara 6/3.
Irma resistette alle torture fino alla fine, senza mai parlare. Preservando in tal modo molti suoi compagni. La mattina del 14 agosto una persona informò i  parenti che il corpo inanimato di Irma si trovava sul selciato vicino allo stabilimento della ICO, fabbrica di materiale sanitario. “Mimma” venne lasciata in vista dagli aguzzini per una giornata, come disumano monito. Poi fu portata all'Istituto di Medicina Legale di via Irnerio dove un custode, amico della Resistenza, scattò le foto del viso devastato dalle torture. Venne infine sepolta alla Certosa, accompagnata dai familiari e qualche amica.
La federazione bolognese del PCI il 4 settembre 1944 pubblicò un foglio volante,  stampato nella clandestinità, nel quale si ricordava il senso altamente patriottico del sacrificio di Irma e si incitavano i bolognesi ad intensificare la lotta contro i nazifascisti. 
A lei fu intitolata una brigata SAP (Squadra di azione patriottica)  che operava nella periferia nord di Bologna ed un GDD  (Gruppo di Difesa della Donna).  Riconosciuta partigiana alla fine della guerra fu decorata di Medaglia d'Oro al  Valor Militare, insieme ad altre 18 partigiane in Italia. E' sepolta nel Monumento Ossario ai Caduti Partigiani della Certosa di Bologna ed è ricordata nel Sacrario di Piazza Nettuno e nel Monumento alle Cadute partigiane a Villa Spada. A Bologna una lapide onora  il sacrificio della giovane partigiana nella via a lei dedicata. Anche i comuni di Argelato, Castel Maggiore, San Giorgio di Piano, Malalbergo e Molinella le hanno intestata una strada.

(Antonio Sciolino, storiaememoriadibologna)


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